domenica 1 settembre 2013

6. Luna


Così per la terza volta in tre giorni, il cavaliere fu costretto a passare la Notte in piena campagna.
Dopo lo scontro infatti aveva deciso di andare via da Domremy per non causare alla popolazione del luogo altri guai, gli Inglesi infatti saputo dello scontro e delle perdite non avrebbero di certo perdonato l’affronto subito e sarebbero tornati a cercarlo in forze.
Così dirigendosi verso occidente aveva raggiunto un antico castello diroccato che si diceva fosse appartenuto al padre del leggendario cavaliere chiamato il “Franco” da tutti conosciuto come “Hastatus” o meglio “Lancillotto”.
Quella terra una volta conosciuta come la fertile Ganis ora senza nome era stata inghiottita dal tempo e dai rovi.
I rovi come gigantesche ragnatele nelle antiche abitazioni in disuso, erano cresciuti su tutto un fianco della collina dominata dalle rovine del castello. Li in cielo splendeva una Luna fantastica.
Non che sia stata piena, ma è proprio questo che la rendeva così speciale quella Notte.
Non era neanche mezza ed era illuminata nella parte inferiore; era di un giallo intenso e
a vederla così nel cielo sembrava che un grande sorriso avesse riempito con la sua luce una buona parte del cielo.
L’uomo stanco ed assonnato quella Notte, seguì la magica luna attraversare metà di quel cielo e poi infine rallentare ed adagiarsi lentamente sul fianco di una montagna nera come il manto di un corvo.
Fu così che al cavaliere tornò in mente una canzone cortese che spesso si faceva cantare da un menestrello di origini provenzali che più o meno diceva:

E quella Luna lassù in cielo, sul crinale di quel monte
Non è forse la cosa più umana e pura del mondo?
Quella gialla Luna distesa su un fianco che stanca dorme
Appoggiata al freddo pendio dolce e incantato di quella collina
Non è forse la cosa più bella, dolce e vera che si sia mai vista
Da che l’uomo imparò a guardare in alto verso il cielo?
Non è forse quella nuvola il suo tiepido cuscino latente di infinita bontà?
Rispondimi pure di No. . .
Tanto ormai la Luna già dorme. . .
Tanto ormai la Luna è già tramontata. . .



E mentre l’uomo recitava i suoi ultimi versi, la Luna, ormai ridotta ad un fazzoletto di luce che traspariva dalle fronde di alberi lontani, sparì inghiottita dal nero della montagna che fino a poco tempo prima era stata il suo giaciglio.
Così l’uomo senza più neanche la compagnia della gialla luna abbandonò la sua mente a pensieri lontani, pensieri ricorrenti.
Pensò a suo padre Jean I Conte d’Alencon, pensò che non aveva avuto neanche dieci anni il giorno in cui suo padre morì colpito a morte da un dardo inglese che passò dritto dalla schiena al petto attraversandogli il cuore. Pensò che non ricordava nulla della sua prima infanzia ma poi con dolore ritornò a rimembrare la morte del Conte.
Suo padre non era in battaglia ma la sua morte fu causata da un vile attentato di un mercenario borgognone che una volta lanciato il dardo avendo aveva visto il suo colpo andare a segno e per paura di ritorsioni aveva spronato il suo cavallo al galoppo facendo sparire le sue tracce lungo la via che attraversava un boschetto poco lontano da dove si era consumata la tragedia.
Così fu, e il giorno dei funerali del Conte, il cielo sembrava impazzito di dolore mentre continuava a piangere pioggia sopra le nere vesti di sua madre Marianne d’Orleans.
Sua madre, distrutta, poggiava le sue bianche mani sul carro dove era stato riposto il corpo esanime del marito fasciato da bianchi teli di lana e da un pesante velo su cui erano riportati i colori e gli stemmi della sua antica casata.
Egli lasciava tutto al suo unico erede, suo figlio Jean che ora accanto alla madre e piangeva in silenzio lacrime salate che sotto la pioggia battente si mischiavano alle tiepide gocce cadute dal cielo così che il sapore di quel dolore nei suoi ricordi era parso un po’ meno salato.
Dopo il funerale sua madre aveva deciso che sarebbe rimasta con il lutto per tutta la vita.
E anche se sfinita dal dolore decise di far chiamare da una vecchia serva il suo unico figliolo e una volta che il bimbo fu al cospetto della contessa lei lo prese in braccio e gli disse:
“Figlio mio. . .”
Il bimbo stette e rispose:
“Si madre. . . cosa vuoi che io faccia?”
E lei:
“Già era stato prestabilito tutto prima della tua nascita e molto prima della morte di tuo padre. Un giorno non lontano tu diverrai un uomo e potrai pienamente accedere all’eredità che tuo padre ti ha legittimamente lasciato. Diverrai il Conte Jean II d’Alencon potrai governare con il favore del Re di Francia sui tuoi sconfinati possedimenti; il Re ti nominerà successore di tuo padre e ti farà cavaliere e comandante del suo esercito se ne avrai le capacità e l’orgoglio. Ma prima dovrai studiare duramente e dovrai applicarti nelle arti della Guerra alle quali già sei stato iniziato qui ad Avignon.”
“Jean, tu andrai a studiare ad Orleans.”
“Madre ma io. . .”
“Non interrompermi” disse con dolcezza Marianne
“Figlio mio, ormai sei quasi un uomo, devi prenderti le tue responsabilità da uomo.”
“Si madre” disse il piccolo abbassando gli occhi mentre nella stanza il fuoco scoppiettava dando un po’ di calore e luce a quella che era stata la giornata più fredda e buia della sua vita.
“Promettimi che diventerai un giorno generoso, leale e forte fu come tuo padre. . .” disse di nuovo Marianne con gli occhi pieni di lacrime.
“Si madre te lo prometto, ti prometto che diventerò forte e leale come mio padre e vostro marito evi prometto che manterrò alto il nome della nostra franca famiglia.”
La famiglia di Jean era discendente di un’antica casata di conti e vassalli del sovrano di Francia diretti discendenti di un ramo secondario della stirpe Carolingia.


I suoi avi avevano combattuto per anni al fianco della corona di Francia assicurandosi fama, prestigio e potere. Ora la sua famiglia abitava in un palazzo gentilizio al centro di Avignon, dove il Re di Francia Filippo detto Il Bello, parecchi anni prima aveva portato il papa per poter avere il controllo su il suo regno e su tutta la cristianità.
Quindi in un certo senso nonostante il nome di Alencon che portava, il cavaliere si poteva dire fosse a tutti gli effetti nato e cresciuto in Provenza, l’antica Gallia Cisalpina che gli abitanti del luogo, dal periodo del dominio romano chiamavano comunemente Provincia.

Così Jean partì un giorno con il suo amico e compagno di giochi Alen d’Avignon, lui era a tutti gli effetti di origini provenzali come si poteva evincere dal nome.
I due partirono a cavallo insieme ad un drappello di uomini armati e due precettori che fino ad allora si erano occupati della salute e dell’educazione dei due rampolli.
Il cavaliere, assopito a terra non ricordava quasi nulla di quel viaggio lontano negli anni ma ricordò il momento in cui lui ed il suo grande amico erano entrati nel freddo palazzo del convento di benedettini ad Orleans retto dal superiore abate del convento il frate Anton le Garre.
I due erano stati accolti dal superiore che spiegò con poche parole l’essenza di tutta la loro educazione.
Ora et Labora” disse il frate citando San Benedetto
Con quella frase il frate aveva voluto dire che i suoi due nuovi allievi avrebbero dovuto lavorare e pregare in ugual misura durante la loro permanenza in quel luogo dove sarebbero rimasti per sei anni.
Oltre al lavoro e alla preghiera i due avrebbero avuto lezioni di latino e greco antico, botanica, arti belliche, matematica, geometria e astronomia; in più i due ragazzi avrebbero seguito lezioni di cavalcatura e lezioni di spada, arco e lancia.
Il cavaliere cambiò la sua posizione sul giaciglio di foglie secche e fieno.
Continuava a pensare alla sua adolescenza, ai suoi insegnanti e alla spensierata vita di allora, tagliato fuori dal mondo e dalle sue inumane pretese.
Pensava a tutti i guai che avevano combinato lui Alen e Carlo, il rampollo della famiglia Valois e futuro Re di Francia, durante la loro permanenza nell'accademia vescovile e ricordava quanto fossero dure le punizioni per chi infrangeva le regole della scuola.
Le punizioni andavano dal lavoro sporco in cucina, alle scudisciate che difficilmente arrivavano oltre a dieci. A sorvegliare sulla loro condotta e su quella di altri cinquanta ragazzi come loro c’era un frate più alto e robusto degli altri che non appena scopriva il colpevole di qualche misfatto lo prendeva con se e dopo un brevissimo sopraluogo sulla gravità del fatto, immediatamente infliggeva giudizio e pena.
Gli insegnanti di combattimento e cavalcatura erano tutti e due veterani di gran fama provenienti dalle gloriose divisioni della guardia reale Francese.
I due insegnanti, durante quegli anni in cui Jean studiò nella scuola, tramite dure e lunghe ore di pratica nel cortile adibito a tali materie, insegnarono ai ragazzi a combattere a piedi e a cavallo con talmente tanta maestria che alla fine del ciclo scolastico tutti potevano essere considerati dall’esercito come un ufficiale corpo d’armi a cavallo.
Il cavaliere non riusciva a prendere sonno.
Sebbene senza tetto, il castello, poteva ancora riparare il cavaliere dal freddo vento di Mistral che turbato dal troppo sole delle passate settimane, turbinava infuriato portando con se i veli d’occidente che pian piano si distesero sul cielo stellato.
Ma il cavaliere era turbato da ben altri pensieri, pensava a quegli uomini che aveva ucciso in combattimento quel pomeriggio e si chiedeva se la bimba per la quale egli aveva combattuto si era solo divertita a dire quella frase o se. . .
Le sottili nubi trasparenti nel cielo sembravano stuoli di pura seta gettati sul telo bucherellato del cielo stellato.
Dopo la seta vennero nubi più consistenti che finirono per ricoprire tutto infine divenne
buio. . .
Di tanto in tanto qualche bagliore di saette lontane rischiarava il manto nero con cui il vento aveva coperto la luna e le stelle. Il fuoco quella sera non ne aveva voluto sapere di accendersi e tranne quei rari bagliori lontani di luce, tutto intorno sembrava essere governato dai gloriosi fantasmi di un tempo passato grandioso e radiante, di nobili valori e azioni cavalleresche.
Così il cavaliere senza fuoco, quella Notte riprese a dormire grazie all’oscurità immerso com’era nel buio più completo placato solo ed unicamente da attimi di luce folgorante. . .

Fu così che. . .

“Nei sogni si sa, spesso avvengono fatti incomprensibili per gli uomini ma non tutto è pura astrazione proveniente dal mondo esterno. . . A volte nei sogni qualcuno desidera parlarci e se riusciamo ad ascoltarlo con attenzione egli come profeta ci saprà indicare la via da seguire nel bene e nel male. . . nel buio e nella piena luce. . .”

Così molti anni prima gli aveva sussurrato in un orecchio sua madre ed egli allora era ancora un bambino che come tanti altri giocava e sognava un giorno di brandire la spada come Re Artù , Lancillotto e Parcefall.
Era un bambino desideroso di divenire un giorno uno dei grandi cavalieri della Tavola Rotonda, di combattere per la giustizia e per l’onore.

Ora che cavaliere lo era diventato, nei suoi sogni non c’erano più ne draghi sputa-fuoco ne calici sacri.
Ora l’uomo sognava il suo passato, vedeva dietro di se fatti e avvenimenti a volte lontani e a volte vicini nel tempo senza un’apparente connessione tra di loro.
Ma a volte apparivano nei suoi sogni cose inspiegabili dalla potenza inaudita che potevano significare qualunque cosa, potevano sprigionare ricordi e profezie, fantasmi e amori o forse solo un leggero battito di ali in alto nel cielo tra le vette innevate di chissà quale posto lontano dall’immaginazione umana.

Fu così che in quella Notte Jean sognò per la prima volta una contadina, una ragazza giovane ed umile che dicendosi inviata dalla voce di Dio implorava il Generale di portarla con se fino a Chinon, il cavaliere allora stupefatto chiese alla contadina cosa sarebbe andata a fare a Chinon lei che non aveva mai masso piede fuori dal suo piccolo paesino. . .
La ragazza non rispondeva ma pregava a bassa voce sussurrando velocemente e scandendo ogni parola con un respiro profondo. . . Jean pensò allora che quella contadina non fosse altro che la solita umile e povera ragazza che avendo perso in guerra tutta la famiglia era impazzita dal dolore e cercava rifugio sicuro nella sua lucida follia.
Ma la ragazza continuava ad insistere quasi con violenza, finché il cavaliere non incontrò lo sguardo della ragazza e i suoi occhi azzurri. La ragazza gli disse:

“Jean non ricordi? la promessa. . .”
Poi un lampo di luce gli attraversò l’anima scosso da un fremito e da un boato assordante si svegliò e vide che stava per iniziare a piovere.
Prese il suo cavallo e cercò un posto sotto le fronde di qualche gigantesco larice dove potersene stare ancora un po’ all’asciutto prima che anche l’albero avesse iniziato a gocciolare acqua da tutte la parti.
La tempesta fu violenta ma dopo pochi minuti dalla sfuriata iniziale aveva già esaurito tutta la sua energia.
Così fu che il vento riuscì ad asciugare l’enorme larice prima che le gocce d’acqua fossero riuscite a penetrare la fittissima rete di aghi che coprivano i rami dell’albero.
L’uomo messo a dura prova dal sonno e dalla poggia del temporale cedette di nuovo alla stanchezza sprofondando nel buio più assoluto e totale che poteva essere solamente frutto di una grande stanchezza accumulata durante i giorni precedenti.
Così l’uomo, stanco sognò il nulla più nero che si possa mai solo immaginare.
Sognò il buio che era oltre alle sue palpebre, sognò l’oscurità dei boschi invernali dove i si aggirano famelici schiere di lupi affamati.
Sognò il colore che c’è nel profondo dei pozzi, nelle viscere della terra e nelle profondità del mare.
Sognò la Notte più cupa, il manto dell’inverno e il soffio gelido della morte. Sognò di dare un calcio ad un’ampolla di inchiostro che versato a terra tinse tutti i ricordi del precedente sogno di . . . NERO.

Nero come il terrore, come il mantello delle streghe e dei maghi, nero come gli inferi, come il tavolo dove quella mattina aveva poggiato i gomiti per riposare qualche minuto. Nero come la fuliggine e il catrame.
Nero come. . . la peste, come il tempo passato, nero come la selva oscura, nero come il bianco più bianco che ci sia.

sabato 31 agosto 2013

5. Scontro ed Incontro


Al Delfino di Francia, Sua Maestà Carlo VII,

Sire, vi scrivo da una locanda a poche miglia da Domremy, per informarla che Reims è ancora libera. Il nostro nemico ancora non ha osato scagliare neanche un dardo contro le mura della città.
Ma la situazione si fa più difficile ad ogni minuto che passa.
Mura, torri, camminamenti palazzi e centro cittadino sono quasi totalmente sguarniti di milizie in grado di difendere la vostra corona.
Sire con questa mia vi chiedo di inviare nella Champagne fanti ed arcieri dell’esercito reale e della guardia nazionale.
Inoltre vi chiedo umilmente di esulare il Duca Richard de Reims dal comando di queste nuove forze.
Il Duca non è in grado di sostenere un assedio tanto lungo come quello che si profila nel futuro della nostra cara Reims.
Lasciate che a guidare le difese della vostra corona sia un uomo di grande abilità tattica e di alto temperamento come il vostro fedele Generale Alen d’Avignon.
Come voi saprete certamente ricordare il Generale Alen d’Avignon è stato colui che salvò la vostra incolumità ad Agincourt due anni fa.

Sire, per la Francia ed il suo popolo, dovete prendere una decisione, combattere per la vostra corona e Dio ve né renderà conto.
Reims è ancora francese ma non c'è più tempo da perdere, il Duca sta per cedere alle insistenze del nemico che con lauti doni cerca di impossessarsi della città senza colpo ferire. Il tempo è poco e se la corona di Francia cade nelle mani degli inglesi tutta la Francia cadrà insieme al suo RE.

Sempre fedele, il Vostro consigliere e Generale
                       
                             Jean Conte d’Alencon



Prese così il foglio di pergamena ruvida, lo arrotolò facendogli fare tre quattro giri su se stesso, prese dello spago, lo legò saldamente al foglio e poi sigillò il tutto con la cera lacca.
Mentre la cera era ancora calda, prese l’anello della sua casata e impresse le sue insigne nel morbido e profumato impasto. Mise tutto dentro un tubo di carta pecora indurita con l’aggiunta di spessi strati di cuoio esterno sigillò il tutto come di consueto e consegnò il dispaccio reale ad un soldato che stava portando altri dispacci importanti a Chinon.
Dato l'ordine al soldato, Jean appoggiò i gomiti sul tavolo della locanda. Le assi in quercia del vecchio tavolo traballante erano nere, consunte di cucinato, posate e piatti, ricoperte da un olioso strato di fuliggine, polvere, resti di cibo e altre forme di sporcizia di cui era meglio non conoscere la natura. Pensieroso si mise ad osservare nodi e venature del legno, poi mirata la finestra guardava il paesaggio mite e colorato della Champagne in Ottobre.
Ogni contadino, con le proprie mogli con le figlie e i figli, fuori da quella finestra stava lavorando, conversando, o semplicemente osservando le vigne.
Da quella valle usciva il miglior vino del mondo, migliore del Rosso di Bordeaux, del Grigio Merlot, del Bruno Pinot e di qualsiasi altro merum che la Francia vantava di produrre.
In quella regione veniva prodotto un vino che forse era più noto anche della sua stessa terra già leggendaria, il suo nome era “semplicemente” Champagne.
Ogni tralcio, ogni vaco, di quella vite era considerato da tutti al pari dell’oro.
“L’oro disceso dal sole” così era chiamato il colore dei frutti che producevano il nettare del Delfinato.

Paesaggio autunnale della Champagne

E così, mentre Jean pensava crogiolato nel sole di un pomeriggio d‘inizio Ottobre inaspettatamente caldo, tutto ad un tratto il vivace mondo intorno ai suoi pensieri tacque. . .
Come pietre, i popolani che prima vivacemente organizzavano spremiture e vendemmie, ora si erano bloccati in una posizione che poteva essere giustificata solo da un improvviso agghiacciante stupore creato da qualcosa di terribile ed assurdo.
C’era chi stava scrivendo che alzati gli occhi dal foglio era rimasto immobile con la penna d’oca liberamente gocciolante sulla pergamena, chi stava parlando e gesticolando ora era rimasto immobilizzato nella mascella e nelle mani, chi lavorava smise di industriarsi e Jean che dalla sua posizione, non riusciva a vedere, accortosi che qualcosa non andava, uscì dalla porta e girò gli occhi verso il punto dove tutti stavano guardando. . .

Di fronte a se il Generale aveva una piccola guarnigione di cavalieri inglesi, in tutto quattro, che galoppavano con gran fragore verso la pacifica cittadina di contadini.
Il momento di stupore iniziale si trasformò ben presto in panico.
Gli inglesi ora erano li, ad un quarto di miglio di distanza dal Generale Francese che impassibile guardava il nemico avvicinarsi sempre di più. Capì che quei cavalieri erano lì solo per lui, mandati dal Duca traditore a seguire le sue tracce per ucciderlo.

Ma prima di lui sulla strada i cavalieri stavano per raggiungere una bambina di appena sette anni che colta di sorpresa non si era accorta dell’arrivo dei soldati inglesi.

Allora il cavaliere iniziò a correre giù per la strada. Giunto alla giusta distanza sfoderò l'acciaio dal cuoio e con due passi bloccò saldamente i piedi a terra stingendo con forza l’impugnatura della lama diafana che al sole saettava dalle sue mani, lucente.
I quattro cavalieri britannici al galoppo erano evidentemente intenzionati ad uccidere lui e la bambina, velocemente, così come in quel periodo dell'anno si coglie l’uva dai tralci gialli.

La bimba vide il fiero uomo misterioso avvicinarsi a lei con una gran corsa per posizionarsi in sua difesa contro quegli enormi cavalieri, con l'intenzione di sfidarli senza cavallo, compagni e armatura.

La piccola continuò a correre più forte che poteva, ad ogni passo sentiva sempre più vicino il galoppo bestiale dei suoi inseguitori, sentiva il respiro dei loro cavalli, i cigolii delle loro finiture e le urla di sprono. . .

Come nell’Apocalisse, i quattro guerrieri a cavallo si disposero in fila, sguainando le loro armi dai pesanti foderi si lanciarono contro quel folle ritto in piedi che da solo osava opporsi alla loro corsa.


La bimba cadde. . .


Quel giorno su quella collina di Domremy tirava un forte vento di Mistral che innalzava al cielo la polvere della strada sollevata dal galoppo dei cavalli inglesi.
E mentre il sole tramontava ad occidente, il cavaliere strinse ancor di più l'elsa della sua lama tra le mani.

Con sole e vento alle spalle il paladino, diede uno sguardo al cielo e gridando corse verso la bambina in difficoltà.
Raggiuntala si interpose tra l’innocente e i suoi inseguitori e una volta che i quattro piombarono su di loro al galoppo, il cavaliere sferrò un potente colpo di spada al primo dei cavalieri Inglesi che gli si presentò innanzi colpendolo di punta al torace. Si voltò poi di scatto e schivò la stoccata di un secondo cavaliere il quale colto di sorpresa, inclinatosi si sbilanciò, perse una staffe e cadde a terra continuando a seguire la corsa impetuosa del cavallo. Trascinato dalla seconda staffa sui sassi e le pietre della strada, l'inglese giunse fino alla locanda. Un nugolo di operai e contadini che avevano in odio gli inglesi, per le continue scorrerie che compivano ormai da mesi nelle loro proprietà, afferrarono il cavallo per le redini e finirono il soldato con spranghe e picche.

Stupiti dalla forza di quell’uomo e spaventati dall'inaspettata rivolta dei contadini, superato Jean, gli altri due cavalieri fermarono i palanfreni e tornarono contro di lui di nuovo al galoppo.
Il paladino che si era buttato a terra oltre il ciglio della strada, ora aveva il sole e il vento contro, disse alla bimba di fuggire via.
La piccina si alzò ma per la foga e la paura cadde di nuovo alle spalle del suo difensore.

Jean chiuse quindi le palpebre ed aspettò al buio che il galoppo dei due si avvicinasse fino al punto in cui il primo cavallo avrebbe calpestato l’umida erba dove il cavaliere rotolando era atterrato.
Ascoltato il rumore più profondo dello zoccolo nella nuda terra Jean aprì di nuovo gli occhi e con un’agilità fulminea scaricò la sua spada contro la corazza del terzo nemico facendolo cadere a terra insieme al suo cavallo mentre l'uomo rimasto sulla sua cavalcatura per evitare il destriero disarcionato del compagno preferì evitare lo scontro con il formidabile guerriero.
Il soldato ancora in vita, ora di nuovo con il sole e il vento contro, ferito nell'orgoglio decise di non fuggire ma essendo in posizione comunque favorevole caricò nuovamente l’abile avversario senza armatura.

Spaventato e stordito dalla rapidità dei fatti, il milite inglese girò due volte con il suo cavallo intorno al Generale e alla bambina guardandoli dall’alto come per sovrastarli. . . alzò in alto la sua spada e. . . la scese terra mirando la piccola.

Il Generale scoccò un poderoso colpo sul corpo della spada inglese che vibrando finì in aria. . .
L’arma raggiando luce in ogni direzione roteò e infine si piantò a terra dissodando una nera zolla dalla vigna che da li distava pochi passi.
L’Inglese costernato, scese da cavallo raccolse la sua spada sguainandola dal soffice strato di terra nera ed impugnata l’arma, si mise a correre contro il condottiero, il quale impassibile ma stanco, era immobile al suo posto, sempre nella stessa posizione. La piccola nel mentre era riuscita a fare alcuni passi di corsa e più veloce si allontanava dall’ultimo suo aggressore rimasto in vita.

L’Inglese sferrò un attacco potente facendo discendere la lama all’alto contro il collo di Jean. Tuttavia mentre la lama colpiva di nuovo la fertile terra, l’Inglese sentì il piatto e freddo ventre dell’acciaio francese, posarsi sotto il suo mento tra il collo e la mandibola e una forte spinta all'indietro.

Rudimenti di scherma medievale

Fu così che il britannico cadde affranto sulle ginocchia, atterrando anche la spada, mentre il paladino francese pretesa la sua resa, guardava con la coda degli occhi la piccola ora ferma sulla collina. Immobile ed impavida affrontava a testa alta l’esito finale del combattimento.

L’inglese chiese pietà, il cavaliere gli accordò la grazia, tolse la spada dal collo nemico e attese che l’ultimo dei suoi avversari rimasto in vita, disarmato, salisse in groppa al suo cavallo. Infine quando l’inglese non fu altro che un punto nella  retta bianca della strada, il cavaliere spossato nel corpo dallo sforzo, lentamente e con il fiato corto si avvicinò alla bambina dicendo:

“Madamigella, deve scusare la mia disattenzione ma non ci siamo ancora presentati. . . Il mio nome è Jean II d’Alencon, pronto per servirla.” 
Il cavaliere fece un inchino e salutò la bambina. Ripose così la sua spada nel fodero non senza le difficoltà dovute alla scarica del rilassamento dei nervi del braccio destro dopo la tensione e la fatica del combattimento.

La bimba sorrise. . .
Intanto presi dalla curiosità e dalla gioia scaturita dal coraggio della loro ribellione, un gran numero di persone si era raccolto intorno ai due.

“Anche lei mi deve scusare messere, il mio nome è Jeanne d’Arc. . .”

La bimba iniziò a ridere e i suoi occhi azzurri così sinceri e luminosi, accecavano di luce i raggi solari ora al culmine del loro splendore pomeridiano.
“Ma voi mi potete anche chiamare solo Jeannette.”
Disse la fanciulla continuando a sorridere all’uomo che l’aveva salvata.
E allora la piccola disse una frase che il cavaliere con la sua spada riposta nel fodero non avrebbe mai più dimenticato.
Lei infatti smettendo di ridere alzò gli occhi al cielo e disse:
“Grazie Signore di avermi salvata. . .”

E poi riferendosi al cavaliere

“Io e lei messere non ci siamo mai incontrati, non ci siamo mai parlati eppure le dico, che un giorno ci rivedremo perché il sangue che scorre nelle sue vene è lo stesso sangue che avete salvato questo pomeriggio. Io le prometto che ripagherò il mio debito con voi, salverò la vostra vita come voi oggi avete salvato la mia.”

Il cavaliere sentite quelle parole si chiese confuso se avesse salvato la vita ad una pazza oppure se dietro quelle parole si celava la verità innocente di una bimba, ma confuso e stanco dalla battaglia sul momento non diede ascolto alla piccola e aspettò quindi l’arrivo di qualche suo familiare.

Giunse allora un giovane contadino sulla ventina che disse di chiamarsi Jacques d’Arc. Arrivato sul prato dove si era raccolta la piccola folla, con poche spinte riuscì ad aprirsi un varco tra i curiosi e in lacrime prese sua sorella con se cercando tra le lacrime le parole per ringraziare il cavaliere. Ringraziando Jean disse che saputa la notizia dello scontro in cui era stata coinvolta anche sua sorella, si era precipitato in paese pregando che la piccola fosse viva.

Jean quindi salutò i due fratelli e direttosi verso la locanda entrò nella stalla, prese il suo cavallo e salito in groppa sparì nel sole al tramonto prendendo la direzione opposta di quella scelta dal suo nemico inglese, questa volta ormai in fuga.

venerdì 30 agosto 2013

4. Il primo e l'ultimo


Di nuovo. . .

Sentiva amorevolmente i suoi battiti ed ascoltava la sua vita morire e rinascere, morire e rinascere. . . ad ogni pulsazione.
Spesso si addormentava con questo espediente. . . Altre volte suggestionato da qualche battito più forte con lo stesso metodo non riusciva a prender sonno. Ma non era da gentiluomini far pensieri sconvenienti sulla propria salute.

Una folata di vento fece fischiare gli alberi, Jean soddisfatto di essere riuscito ad accendere quel minimo fuoco vicino al quale ora stava riposando, chiuse la mente ai pensieri e sognando ritornò sul campo di una lontana battaglia.

Tornò in uno dei peggiori incubi a cui abbia mai assistito, il sonno sconvolto e convulso gli aprì lo scenario della battaglia di Agincourt.

Tutto era divenuto scuro e tetro, il clamore delle armature scagliate ad altissima velocità dal galoppo contro le lunghe lance della fanteria nemica risuonava nella sua memoria; come un vivo e fervido ricordo di giorni non lontani. Nell’aria tuonavano i colpi neri dei tamburi che ritmavano la marcia dei fanti in prima linea pronti al massacro, lanciati di corsa contro, gli scudi e le lame dell’invasore inglese.
I fanti gridavano la loro morte prima ancora di intravedere il nemico. . . sapevano che sarebbe bastato un dardo scagliato dalla lunga distanza a fargli scivolare dalle dita spada e vita.
Rimembrava gli elmi lucenti dei corazzieri sfilare l’uno dopo l’altro lungo il dolce e verde pendio della collina sovrastante il campo di grano dove i due mastodontici eserciti stavano per abbattersi l’uno contro l’altro, ferendosi a morte, mietendo tutto ciò che avrebbero incontrato lungo il loro cammino. 
Nere schiere di soldati si preparavano e cercavano di impressionare il più possibile il nemico con lunghi stendardi, ricchi paramenti, bandiere, fiaccole, arazzi armature e scudi; mentre gli uomini oltre la latta guardavano in faccia ognuno dei fronteggianti rivali, chiedendosi quale tra quelle spade sarebbe toccata al proprio ventre e sperando in caso di ferita o menomazione, che qualche lucente lama lo avrebbe infine colpito a morte.

Per un attimo tutta quella follia parve aver congelato contemporaneamente le menti di tutti i militi, di tutti i generali, dei re e dei loro numerosi servitori. Nel sogno tutto quanto parve fermarsi miracolosamente, ed ancor più miracolosamente tutto parve essere cessato: i tamburi, le marce e le grida. . . nulla più. . . solo una leggera, calda brezza estiva e un cocente sole mattutino stagnante nell’azzurro limpido di un cielo oceanico, calmo, senza nubi né onde. Tutto così finché. . . un sibilo. . . un soffio d’aria più impetuoso del solito e . . .
L’urlo di un uomo che chiedeva pietà a quello stesso cielo misericordioso solcò il campo di battaglia, attanagliando anime e corpi in una morsa bestiale, in un istinto irrefrenabile di morte e violenza che solo tramite altra morte e violenza poteva essere arrestato.

C’e sempre qualcuno che muore prima di ogni altro sul campo di battaglia. . . questi uomini di solito si riconoscono tra le schiere dei soldati appena arruolati e delle nuove leve. I veterani addirittura si divertivano a scommettere su chi per primo, tra tutti quei nuovi corpi offerti come sacrificio alla terra natia, avrebbe spirato urlando a causa di una ferita che con qualche accorgimento in più adottato su corazza e vestiario, sarebbe stata si e no superficiale.

Questi uomini “prescelti” si riconoscevano immediatamente tra le file di combattenti ed ogni esercito ne possedeva almeno una ventina. . . schivi e remissivi alla sorte e al fascino della vita del guerriero, sentivano la tensione della battaglia e della Notte come mai nessun altro essere umano in armi. . . questi uomini portavano la corazza spesso e volentieri al contrario o mutilata di pezzi molto pesanti ma fondamentali. . . si diceva di loro che non tenessero alla loro vita e allora il Dio, che dall’alto tutto domina e governa, li scegliesse come Primi per risparmiare la vita dei bravi e valorosi soldati che invece, pesantemente bardati, alla loro incolumità pensavano eccome.

Il loro sacrificio risparmiava la vita ad un soldato che avrebbe potuto fare la differenza sul campo invece di morire miseramente senza neanche aver assestato un onesto colpo di spada nelle reni di qualche sconosciuto.
I Primi, tremavano e pregavano sempre durante il tragitto che portava la loro compagnia al campo. . . a loro era dato un omaggio ufficiale dopo la battaglia ed erano gli unici che avevano un giusto e solenne funerale. Ogni Primo salvava la vita di un intero esercito, per importanza di morte erano sempre loro, i Primi che troneggiavano addirittura sulla morte dei comandanti di cavalleria.
L’urlo si levò in aria, immediatamente le schiere di fanti fluttuarono tra le bionde spighe e all’unisono furono colte da improvvisa attrazione, come se il metallo delle loro armi si attraesse per qualche forza misteriosamente salita dalle profondità della terra.
Al Primo urlo seguirono centinaia di grida. . . la terra tremò. . . il cielo si fece scuro, iniziò a tirare un vento cupo di morte e piovvero dardi. . .
Ad ogni sibilo, ad ogni sussurro il vento mieteva senza pietà vite e grano.
Improvvisamente, dal nulla, un lampo, una folgore siderea, illuminò elmi e stendardi accecando le menti dei combattenti in un impeto mostruoso di distruzione. 
I due eserciti si erano scontrati. 

La battaglia di Agincourt

La furia della battaglia crebbe con l’avvicinarsi del fatidico arrivo e scontro dei battaglioni a cavallo.
Il cavaliere, teneva testa a due battaglioni di cavalleria posti al di là del fianco sinistro della collina dove era posizionato il grosso dell’esercito francese. . .
Ansioso di combattere mise a freno il suo cavallo e la sua spada, in attesa di un segnale che non arrivò mai. . . Il parigino incaricato di ricevere l’ordine e di riflettere con uno specchio la luce di quel sole funesto sulle posizioni dei paladini, era stato colpito a morte da un dardo scagliato dal lungo arco di qualche arciere inglese.
Il condottiero si rese conto della svista degli alti dignitari di corte e della disfatta quasi immediata dell’esercito francese quando vide un cavalleggero galoppare senza vita sulla collina, il suo cavallo sentendo ancora su di se il peso del suo conducente, non si era accorto di essere rimasto disarcionato. Mentre il cavalleggero insanguinato sfilava di fronte alle facce incredule e spazientite dei trecento cavalieri lucenti e pronti alla battaglia Jean d’Alencon decise da solo di correre verso il crinale della collina, gridando quindi la carica, si diresse verso il campo di battaglia che dalla sua postazione originaria non riusciva a dominare, oltrepassò la cresta della collinetta, e fece in tempo ad assistere agli ultimi spasmi di quel che era stato una volta il glorioso esercito francese. . .

Continuò a sognare. . .

Si vide cavalcare su di un prato rosso, sguainando la spada in aria cercando di ribaltare le sorti di una battaglia che probabilmente era già finita da un pezzo facendo strage dei feriti e dei mutilati inglesi.
Scese da cavallo e strappò il vessillo blu di Francia dalle mani di un mercenario germanico il quale riverso a terra, morente e con gli occhi sbarrati chiedeva pietà e salvezza verso il cielo, sempre più terso e limpido. . .
Rivide intorno a se nel sogno quel che aveva vissuto in vita e fu agghiacciante, i pochi feriti sopravvissuti alle sorti della battaglia maledicevano uomini e santi, alcuni scossi farneticavano e raccontando di come tre battaglioni di cavalleria inglese si erano avventati sulla come furie, decimando le prime linee francesi, sfondando la parva resistenza rimasta, fino alle linee degli arcieri, mentre re e dignitari si erano dileguati alle prime avvisaglie di pericolo.
Ovunque c’erano brandelli di carne, sangue, organi, e teste senza corpo di soldati falciati dalle preponderanti forze a cavallo inglesi.
E mentre si faceva Notte, sulla campagna tutt’intorno al massacro, scese una fitta nebbia che si mischiò all’acre odore dei fumi sprigionati nell’aria delle enormi pire accese per bruciare i corpi dei tanti caduti, privi degna sepoltura.

Tra nebbia, Notte e fumi malsani gli uomini rimasti in forze si aggiravano tra sterpi, e morti. Come fantasmi di fuoco, le loro lucenti armature cosparse di rosso sangue erano colpite dalla tremula luce dei roghi, riflettendo sul metallo bagliori carmini. Attraverso il nulla di quella Notte senza più speranza, questi volontari davano segni di vita alle sempre nuove urla di dolore che si levavano gementi dal campo di battaglia.

Terra, sangue, fumo, luce ed ombre di spettri veleggianti nella nebbia, grida, dolore, bagliori lontani, spade, morti, ghigni, paura, demoni, nebbia ed oscurità, disperazione, ferro ed ancora fuoco, pianti, lacrime e grano rosso. . .

Ed ancora grano, fuoco, tenebre, nebbia, spiriti, armature, lance e. . . Morte.

Il mattino dopo, morì anche l’Ultimo dei soldati rimasti feriti, non riuscì a passare la Notte, Jean se lo ricordava bene. . . l’Ultimo a morire in quella battaglia fu un veterano con il viso scolpito da mille cicatrici. . . uno di quelli che, avrebbe giurato sui santi, la sera prima aveva udito scommettere e ridere sulla morte certa di un ragazzotto sbarbato come "Primo".

venerdì 23 agosto 2013

3. Visione


Il paladino era appena passato sotto la “Porta di Marte” e più continuava la sua ispezione per conto del reggente del popolo francese, più concretizzava nella sua mente l'idea che Reims non era stata neanche sfiorata dall’invasione inglese.
Si palesava sempre più chiaramente, attraversando la città, lo stato caotico con cui l’amministrazione francese stava combattendo una guerra che ormai continuava da poco meno di cento anni. In un secolo le truppe francesi erano state più volte umiliate dai “lunghi archi” e dalle lucenti spade inglesi.
Conti, generali, baroni, nobili e notai stavano portando l’antico Giglio Francese verso il tramonto definivo. . . serviva una svolta, e ormai solo Dio poteva evitare alla Francia la totale annessione sotto il dominio della Corona Inglese.
Nonostante l’apparente inespugnabilità delle mura e delle torri di Reims, i mille dispositivi di difesa e le centinaia di archi e balestre costruite per la difesa della città, nulla avrebbe mai respinto l’esercito nemico a causa dell’evidente mancanza di soldati e di uomini in età d’armi capaci di presidiare i camminamenti e i merli.
Soldati della gendarmerie e fedeli della corona francese, continuavano da mesi a dividersi turni di guardia e postazioni di presidio.
Stanchi ed assonnati sorvegliavano gli angoli chiave della città dalle mura sguarnite.
Un qualsiasi attacco avrebbe espugnato Reims in poche settimane.
La situazione era dunque critica ma poteva essere risolta richiamando cavalieri e fanti da Orleans, Digione, Troyes ed Auxerre.
Jean camminava ora lungo la strada principale di Reims, svoltò l’angolo e chiese alcune informazioni a due sentinelle armate di alabarda. Continuò il sopraluogo finché non giunse in un ampia piazza e. . .

Il paladino aveva viaggiato molto, aveva visto posti lontani miglia e miglia dalla Francia; poco tempo prima era stato su una nave veneziana che da Marsiglia lo aveva portato fino in Terra Santa, aveva parlato lingue millenarie, visitato popoli italici ed era stato molte volte a Parigi, Lione, Orleans ma nulla di tutto ciò che aveva visto o conosciuto possedeva lo stesso mistero e lo stesso fascino della cattedrale di Reims . . .
Cattedrale che ora era più vicina che mai ai suoi occhi.
Nulla al mondo poteva competere per slancio ed eleganza al portamento di Notre-Dame.
Era il primo giorno di Tramontana, la piazza risplendeva di un magnifico sole, il vento gelido che sferzava, puliva il cielo dalle nubi e colpiva duramente sulla miseria degli uomini, braccia viso e gambe nude dei poveri mendicanti erano paonazzi… poco lontano un musico intonava una chanson della champagne che diceva pressappoco:

Molte città nel modo
hanno la propria chiesa per pregare,
poche hanno una cattedrale,
ma questa di Reims è di una magnificenza tale
che nulla potrà mai scalfire o turbare
la santità di Notre-Dame…”

In effetti tutto intorno alla costruzione, sovrana indiscussa di una città in tumulto, c’era un silenzio strano ed irreale.
Tutti, tutti coloro che passavano per la piazza, dal mercante arabo al comune popolano, nel transitare smettevano di parlare, urlare, rumoreggiare… e ammiravano la cattedrale… in silenzio, anche se solo per uno sguardo, per un saluto, per un po’… tutti rivolgevano gli occhi a Notre Dame…
La pietra riluceva rosea e calda, un colore interrotto e spezzato dalle mille ombre delle statue e delle guglie. Sottilissime linee di fuoco incandescente crescendo o restringendosi, davano vita alla facciata come se fosse stata costruita dalla sapienza antica nel fuoco e dal fuoco traesse continuamente energia. Eppure si distinguevano perfettamente pietra su pietra gli elementi costruttivi della chiesa.
 
Domenico Quaglio - La Cattedrale di Reims

Ricordò di aver avuto anni prima un piacevole incontro a Parigi con un mastro costruttore, con cui esulando dagli arogmenti tecnici di dettaglio per la costruzione delle nuove difese cittadine aveva conversato sui metodi di costruzione di tali simili magnificenze davanti a Notre-Damè de Saint Germain.
Egli aveva spiegato al Generale che la forma di ogni costruzione viene data dalla tipologia delle coperture e dal peso del tetto. Gli insegnò semplicemente, come leggere le spinte generate da alcuni carichi e capire le mirabili imprese costruttive degli antichi. Partendo dalle guglie più alte, merlettature di puro godimento estetico, gli altissimi muraglioni della navata centrale erano sostenuti enormi archi rampanti che incatenavano ai fianchi la chiesa. Il tutto veniva poi ripartito di archetto a sesto acuto in arco a sesto acuto.
Come in una cascata di acqua le sezioni dei pilastri aumentavano sempre di più verso il basso, fino a giungere agli enormi archi a sesto acuto all'interno della chiesa ed in facciata, che scaricavano ogni forza risultante sui pilastri principali.
L'invenzione e la perfezione dell'arco a sesto acuto permisero di raggiungere l'altezza notevole delle cattedrali francesi, inglesi e nord-ispaniche.

Non c’era tempo da perdere. . .

Il cavaliere tolse suo malgrado l'occhio dalla mole rosea di Notre-Dame de Reims e tornato indietro, giunse alla staccionata dove aveva legato poco prima il suo cavallo, pagò un’altra moneta al ragazzo. . . sciolse la briglia. . . ma dovette fermarsi a causa della crescente insistenza del Duca di Reims che affannato correva verso di lui chiamandolo ad alta voce:

“Generale! Generale!”

Chiamò, rivolgendosi al giovane condottiero. Il Duca era conosciuto in tutta la Francia come uomo grassottello e sgraziato, vestito perennemente con paramenti da caccia, sempre a cavallo, seguito ovunque da decine di cani e servitori. Così come vollero le dicerie anche quella mattina il Duca si stava preparando per un’altra battuta venatoria tra le colline della verde Champagne.

Jean si fermò e si girò verso il reggente della città:
“E’ da mesi che non inviate più vostre notizie Messere. . . Credevamo che foste morto o peggio. . . caduto prigioniero nelle mani degli inglesi. . .”;
il Duca stette un attimo e poi rispose stizzito: “Sa Generale. . . vista la grande quantità di forze a nostra disposizione, in questi tempi, ci divertiamo ad inviare in giro per la Francia messaggeri a cavallo che forse un giorno potrebbero servire per difendere le mura cittadine in caso di assedio.” - “Abbiamo inviato dieci messaggeri in dieci mesi ma sembra che i nostri nemici siano più bravi di noi a leggere il francese. . . non è forse vero Generale?”

Il condottiero montato a cavallo aveva già messo il piede nella staffa sinistra e scoppiò in una sonora risata.
Restituì le redini del destriero di nuovo in mano al ragazzetto che lo aveva aiutato a montare non senza qualche difficoltà in groppa all’animale, si avvicinò al Duca e disse:

“Non ci possiamo divertire ad avvisare il Delfino della nostra fedeltà però con i tempi che corrono ci possiamo distrarre andando a caccia Messere. . .” - “Comunque. . . belli quei setter inglesi, sono i suoi?”
il Duca rimase un attimo in silenzio e poi disse. . .
“Volete, dunque, insinuare che il Duca di Reims si fa corrompere dal dono gentile di quattro coppie di cani da caccia?”
“No, nessuno qui sta insinuando, ma vi dico che farò inviare immediatamente settecento fanti e cento arcieri sotto il comando del Generale Richard d’Avignon. . . ma non avrete voi il comando di queste truppe. . . il Delfino non può fidarsi di gente spregevole come v’ossia in un tale momento di crisi per tutto il paese . . .”
Saltò in groppa al cavallo, fece cenno ai servitori del Duca di lasciarlo passare, si voltò di nuovo verso l’ometto grassoccio e scapigliato che era andato su tutte le furie e infine sorridendo disse: “Le porgo i personali saluti di Re Carlo. . . buona caccia! ! !”
Vide il Duca diventare di ghiaccio, si rigirò e si buttò al galoppo lungo il ponte levatoio creando qualche scompiglio tra i banchi di contadini che a quell’ora affollavano gli argini intorno al fossato della città. Aveva fretta doveva raggiungere Domremy per inviare al Delfino un dispaccio di diffida per il Duca di Reims, causa tradimento e corruzione e cosa più importante, doveva avvisare il comandante Richard di mettersi in marcia con i suoi uomini per difendere le mura di Reims in caso di attacco inglese.
Il cavaliere quindi si tuffò ad alta velocità nel bosco ed attraversò al passo un guado sulla Marna. . .
Corse senza sosta stando attento a non sfiancare il cavallo, fino al volgere del sole e quandosi sentì esausto si fermò. Era a forse a miglia di distanza dalla locanda più vicina.
Decise allora di accamparsi per la Notte in una macchia di pioppi poco lontani dalla strada principale ma abbastanza folti da celare ai vagabondi, ai predoni ed agli inglesi ogni traccia della sua permanenza in quel luogo.
Bevve un goccio d’acqua dalla bisaccia in cuoio caprino e portò il suo cavallo, stanco dalla corsa, lungo il letto di un torrente per bere un po’ e riposarsi altrettanto.
I pioppi tutti intorno a lui si slanciavano dal suolo con grigia eleganza, scese la nebbia ed iniziò a far più freddo, mentre anche l’ultimo bagliore estremo e stanco del sole iniziava a far sentire il gelo e la sua mancanza, il tramonto portava con se, la nostalgia di una primavera ormai troppo lontana.
Cavallo e cavaliere di ritorno dal ruscello fecero appena in tempo a trovare un luogo adatto per riposare all’addiaccio che subito calò inesorabile la Notte. . .
L’uomo allora prese la sua pietra focaia e con la pazienza di un veterano di guerra riuscì dopo strenui tentativi a far balzar fuori da una catasta di ramoscelli umidi, una guizzante fiammella che si espanse e si moltiplicò agitandosi nel buio, quasi come volesse liberarsi dal peso dei ceppi di leggero pioppo che l’uomo saltuariamente le appoggiava sopra.
La fiammella continuo ad ardere le tenere viscere del suo combustibile fino a quando l’uomo, stanco e spossato, decise di interrompere la sua veglia e messo al parvo rogo l’ultimo ramoscello si coricò su un cumulo di foglie secche condannando la fiamma ad una fine lenta e fumosa. . .