Così
per la terza volta in tre giorni, il cavaliere fu costretto a passare
la Notte in piena campagna.
Dopo
lo scontro infatti aveva deciso di andare via da Domremy
per non causare alla popolazione del luogo altri guai, gli Inglesi
infatti saputo dello scontro e delle perdite non avrebbero di certo
perdonato l’affronto subito e sarebbero tornati a cercarlo in
forze.
Così
dirigendosi verso occidente aveva raggiunto un antico castello
diroccato che si diceva fosse appartenuto al padre del leggendario
cavaliere chiamato il “Franco” da tutti conosciuto come
“Hastatus” o meglio “Lancillotto”.
Quella
terra una volta conosciuta come la fertile Ganis
ora senza nome era stata inghiottita dal tempo e dai rovi.
I
rovi come gigantesche ragnatele nelle antiche abitazioni in disuso,
erano cresciuti su tutto un fianco della collina dominata dalle
rovine del castello. Li in cielo splendeva una Luna fantastica.
Non
che sia stata piena, ma è proprio questo che la rendeva così
speciale quella Notte.
Non
era neanche mezza ed era illuminata nella parte inferiore; era di un
giallo intenso e
a
vederla così nel cielo sembrava che un grande sorriso avesse
riempito con la sua luce una buona parte del cielo.
L’uomo
stanco ed assonnato quella Notte, seguì la magica luna attraversare
metà di quel cielo e poi infine rallentare ed adagiarsi lentamente
sul fianco di una montagna nera come il manto di un corvo.
Fu
così che al cavaliere tornò in mente una canzone cortese che spesso
si faceva cantare da un menestrello di origini provenzali che più o
meno diceva:
E
quella Luna lassù in cielo, sul crinale di quel monte
Non
è forse la cosa più umana e pura del mondo?
Quella
gialla Luna distesa su un fianco che stanca dorme
Appoggiata
al freddo pendio dolce e incantato di quella collina
Non
è forse la cosa più bella, dolce e vera che si sia mai vista
Da
che l’uomo imparò a guardare in alto verso il cielo?
Non
è forse quella nuvola il suo tiepido cuscino latente di infinita
bontà?
Rispondimi
pure di No. . .
Tanto
ormai la Luna già dorme. . .
Tanto
ormai la Luna è già tramontata. . .
E
mentre l’uomo recitava i suoi ultimi versi, la Luna, ormai ridotta
ad un fazzoletto di luce che traspariva dalle fronde di alberi
lontani, sparì inghiottita dal nero della montagna che fino a poco
tempo prima era stata il suo giaciglio.
Così
l’uomo senza più neanche la compagnia della gialla luna abbandonò
la sua mente a pensieri lontani, pensieri ricorrenti.
Pensò
a suo padre Jean I Conte d’Alencon, pensò che non aveva avuto
neanche dieci anni il giorno in cui suo padre morì colpito a morte
da un dardo inglese che passò dritto dalla schiena al petto
attraversandogli il cuore. Pensò che non ricordava nulla della sua
prima infanzia ma poi con dolore ritornò a rimembrare la morte del
Conte.
Suo
padre non era in battaglia ma la sua morte fu causata da un vile
attentato di un mercenario borgognone che una volta lanciato il dardo
avendo aveva visto il suo colpo andare a segno e per paura di
ritorsioni aveva spronato il suo cavallo al galoppo facendo sparire
le sue tracce lungo la via che attraversava un boschetto poco lontano
da dove si era consumata la tragedia.
Così
fu, e il giorno dei funerali del Conte, il cielo sembrava impazzito
di dolore mentre continuava a piangere pioggia sopra le nere vesti di
sua madre Marianne d’Orleans.
Sua
madre, distrutta, poggiava le sue bianche mani sul carro dove era
stato riposto il corpo esanime del marito fasciato da bianchi teli di
lana e da un pesante velo su cui erano riportati i colori e gli
stemmi della sua antica casata.
Egli
lasciava tutto al suo unico erede, suo figlio Jean che ora accanto
alla madre e piangeva in silenzio lacrime salate che sotto la pioggia
battente si mischiavano alle tiepide gocce cadute dal cielo così che
il sapore di quel dolore nei suoi ricordi era parso un po’ meno
salato.
Dopo
il funerale sua madre aveva deciso che sarebbe rimasta con il lutto
per tutta la vita.
E
anche se sfinita dal dolore decise di far chiamare da una vecchia
serva il suo unico figliolo e una volta che il bimbo fu al cospetto
della contessa lei lo prese in braccio e gli disse:
“Figlio
mio. . .”
Il
bimbo stette e rispose:
“Si
madre. . . cosa vuoi che io faccia?”
E
lei:
“Già
era stato prestabilito tutto prima della tua nascita e molto prima
della morte di tuo padre. Un giorno non lontano tu diverrai un uomo e
potrai pienamente accedere all’eredità che tuo padre ti ha
legittimamente lasciato. Diverrai il Conte Jean II d’Alencon potrai
governare con il favore del Re di Francia sui tuoi sconfinati
possedimenti; il Re ti nominerà successore di tuo padre e ti farà
cavaliere e comandante del suo esercito se ne avrai le capacità e
l’orgoglio. Ma prima dovrai studiare duramente e dovrai applicarti
nelle arti della Guerra alle quali già sei stato iniziato qui ad
Avignon.”
“Jean,
tu andrai a studiare ad Orleans.”
“Madre
ma io. . .”
“Non
interrompermi” disse con dolcezza Marianne
“Figlio
mio, ormai sei quasi un uomo, devi prenderti le tue responsabilità
da uomo.”
“Si
madre” disse il piccolo abbassando gli occhi mentre nella stanza il
fuoco scoppiettava dando un po’ di calore e luce a quella che era
stata la giornata più fredda e buia della sua vita.
“Promettimi
che diventerai un giorno generoso, leale e forte fu come tuo padre. .
.” disse di nuovo Marianne con gli occhi pieni di lacrime.
“Si
madre te lo prometto, ti prometto che diventerò forte e leale come
mio padre e vostro marito evi prometto che manterrò alto il nome
della nostra franca famiglia.”
La
famiglia di Jean era discendente di un’antica casata di conti e
vassalli del sovrano di Francia diretti discendenti di un ramo
secondario della stirpe Carolingia.
I
suoi avi avevano combattuto per anni al fianco della corona di
Francia assicurandosi fama, prestigio e potere. Ora la sua famiglia
abitava in un palazzo gentilizio al centro di Avignon,
dove il Re di Francia Filippo detto Il Bello, parecchi anni prima
aveva portato il papa per poter avere il controllo su il suo regno e
su tutta la cristianità.
Quindi
in un certo senso nonostante il nome di Alencon che portava, il cavaliere si
poteva dire fosse a tutti gli effetti nato e cresciuto in Provenza,
l’antica Gallia Cisalpina che gli abitanti del luogo, dal periodo del dominio romano chiamavano comunemente Provincia.
Così
Jean partì un giorno con il suo amico e compagno di giochi Alen
d’Avignon, lui era a tutti gli effetti di origini provenzali come
si poteva evincere dal nome.
I
due partirono a cavallo insieme ad un drappello di uomini armati e
due precettori che fino ad allora si erano occupati della salute e
dell’educazione dei due rampolli.
Il
cavaliere, assopito a terra non ricordava quasi nulla di quel viaggio
lontano negli anni ma ricordò il momento in cui lui ed il suo grande
amico erano entrati nel freddo palazzo del convento di benedettini ad
Orleans retto dal superiore abate del convento il frate Anton le
Garre.
I
due erano stati accolti dal superiore che spiegò con poche parole
l’essenza di tutta la loro educazione.
“Ora
et Labora”
disse il frate citando San Benedetto
Con
quella frase il frate aveva voluto dire che i suoi due nuovi allievi
avrebbero dovuto lavorare e pregare in ugual misura durante la loro
permanenza in quel luogo dove sarebbero rimasti per sei anni.
Oltre
al lavoro e alla preghiera i due avrebbero avuto lezioni di latino e
greco antico, botanica, arti belliche, matematica, geometria e
astronomia; in più i due ragazzi avrebbero seguito lezioni di
cavalcatura e lezioni di spada, arco e lancia.
Il
cavaliere cambiò la sua posizione sul giaciglio di foglie secche e
fieno.
Continuava
a pensare alla sua adolescenza, ai suoi insegnanti e alla spensierata
vita di allora, tagliato fuori dal mondo e dalle sue inumane pretese.
Pensava
a tutti i guai che avevano combinato lui Alen e Carlo, il rampollo
della famiglia Valois e futuro Re di Francia, durante la loro
permanenza nell'accademia vescovile e ricordava quanto fossero dure le punizioni
per chi infrangeva le regole della scuola.
Le
punizioni andavano dal lavoro sporco in cucina, alle scudisciate che difficilmente arrivavano oltre a dieci. A sorvegliare sulla loro condotta e su
quella di altri cinquanta ragazzi come loro c’era un frate più
alto e robusto degli altri che non appena scopriva il colpevole di
qualche misfatto lo prendeva con se e dopo un brevissimo sopraluogo sulla gravità del fatto, immediatamente infliggeva giudizio e pena.
Gli
insegnanti di combattimento e cavalcatura erano tutti e due veterani
di gran fama provenienti dalle gloriose divisioni della guardia reale
Francese.
I
due insegnanti, durante quegli anni in cui Jean studiò nella scuola,
tramite dure e lunghe ore di pratica nel cortile adibito a tali
materie, insegnarono ai ragazzi a combattere a piedi e a cavallo con
talmente tanta maestria che alla fine del ciclo scolastico tutti
potevano essere considerati dall’esercito come un ufficiale corpo
d’armi a cavallo.
Il
cavaliere non riusciva a prendere sonno.
Sebbene
senza tetto, il castello, poteva ancora riparare il cavaliere dal
freddo vento di Mistral
che turbato dal troppo sole delle passate settimane, turbinava
infuriato portando con se i veli d’occidente che pian piano si
distesero sul cielo stellato.
Ma
il cavaliere era turbato da ben altri pensieri, pensava a quegli
uomini che aveva ucciso in combattimento quel pomeriggio e si
chiedeva se la bimba per la quale egli aveva combattuto si era solo
divertita a dire quella frase o se. . .
Le
sottili nubi trasparenti nel cielo sembravano stuoli di pura seta
gettati sul telo bucherellato del cielo stellato.
Dopo
la seta vennero nubi più consistenti che finirono per ricoprire
tutto infine divenne
buio.
. .
Di
tanto in tanto qualche bagliore di saette lontane rischiarava il
manto nero con cui il vento aveva coperto la luna e le stelle. Il
fuoco quella sera non ne aveva voluto sapere di accendersi e tranne
quei rari bagliori lontani di luce, tutto intorno sembrava essere
governato dai gloriosi fantasmi di un tempo passato grandioso e
radiante, di nobili valori e azioni cavalleresche.
Così
il cavaliere senza fuoco, quella Notte riprese a dormire grazie
all’oscurità immerso com’era nel buio più completo placato solo
ed unicamente da attimi di luce folgorante. . .
Fu
così che. . .
“Nei
sogni si sa, spesso avvengono fatti incomprensibili per gli uomini ma
non tutto è pura astrazione proveniente dal mondo esterno. . . A
volte nei sogni qualcuno desidera parlarci e se riusciamo ad
ascoltarlo con attenzione egli come profeta ci saprà indicare la via
da seguire nel bene e nel male. . . nel buio e nella piena luce. . .”
Così
molti anni prima gli aveva sussurrato in un orecchio sua madre ed
egli allora era ancora un bambino che come tanti altri giocava e
sognava un giorno di brandire la spada come Re Artù , Lancillotto e
Parcefall.
Era
un bambino desideroso di divenire un giorno uno dei grandi cavalieri
della Tavola Rotonda, di combattere per la giustizia e per l’onore.
Ora
che cavaliere lo era diventato, nei suoi sogni non c’erano più ne
draghi sputa-fuoco ne calici sacri.
Ora
l’uomo sognava il suo passato, vedeva dietro di se fatti e
avvenimenti a volte lontani e a volte vicini nel tempo senza
un’apparente connessione tra di loro.
Ma
a volte apparivano nei suoi sogni cose inspiegabili dalla potenza
inaudita che potevano significare qualunque cosa, potevano
sprigionare ricordi e profezie, fantasmi e amori o forse solo un
leggero battito di ali in alto nel cielo tra le vette innevate di
chissà quale posto lontano dall’immaginazione umana.
Fu
così che in quella Notte Jean sognò per la prima volta una
contadina, una ragazza giovane ed umile che dicendosi inviata dalla
voce di Dio implorava il Generale di portarla con se fino a Chinon,
il cavaliere allora stupefatto chiese alla contadina cosa sarebbe
andata a fare a Chinon
lei che non aveva mai masso piede fuori dal suo piccolo paesino. . .
La
ragazza non rispondeva ma pregava a bassa voce sussurrando
velocemente e scandendo ogni parola con un respiro profondo. . . Jean
pensò allora che quella contadina non fosse altro che la solita
umile e povera ragazza che avendo perso in guerra tutta la famiglia
era impazzita dal dolore e cercava rifugio sicuro nella sua lucida
follia.
Ma
la ragazza continuava ad insistere quasi con violenza, finché il
cavaliere non incontrò lo sguardo della ragazza e i suoi occhi
azzurri. La ragazza gli disse:
“Jean
non ricordi? la promessa. . .”
Poi
un lampo di luce gli attraversò l’anima scosso da un fremito e da
un boato assordante si svegliò e vide che stava per iniziare a
piovere.
Prese
il suo cavallo e cercò un posto sotto le fronde di qualche
gigantesco larice dove potersene stare ancora un po’ all’asciutto
prima che anche l’albero avesse iniziato a gocciolare acqua da
tutte la parti.
La
tempesta fu violenta ma dopo pochi minuti dalla sfuriata iniziale
aveva già esaurito tutta la sua energia.
Così
fu che il vento riuscì ad asciugare l’enorme larice prima che le
gocce d’acqua fossero riuscite a penetrare la fittissima rete di
aghi che coprivano i rami dell’albero.
L’uomo
messo a dura prova dal sonno e dalla poggia del temporale cedette di
nuovo alla stanchezza sprofondando nel buio più assoluto e totale
che poteva essere solamente frutto di una grande stanchezza
accumulata durante i giorni precedenti.
Così
l’uomo, stanco sognò il nulla più nero che si possa mai solo
immaginare.
Sognò
il buio che era oltre alle sue palpebre, sognò l’oscurità dei
boschi invernali dove i si aggirano famelici schiere di lupi
affamati.
Sognò
il colore che c’è nel profondo dei pozzi, nelle viscere della
terra e nelle profondità del mare.
Sognò
la Notte più cupa, il manto dell’inverno e il soffio gelido della
morte. Sognò di dare un calcio ad un’ampolla di inchiostro che
versato a terra tinse tutti i ricordi del precedente sogno di . . .
NERO.
Nero
come il terrore, come il mantello delle streghe e dei maghi, nero come
gli inferi, come il tavolo dove quella mattina aveva poggiato i
gomiti per riposare qualche minuto. Nero come la fuliggine e il
catrame.
Nero
come. . . la peste, come il tempo passato, nero
come la selva oscura, nero come il bianco più bianco che ci sia.